Afro e Piero della Francesca
Rinascimento e Informale faccia a faccia
Il protagonista dell’Informale e il maestro del Rinascimento uniti dalla ricerca della perfezione formale e da una pittura fatta di luce alla Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea di Arezzo.
«Dimentica i pieni, cioè le figure, e guarda la perfezione delle forme dei vuoti. Impara a leggere i quadri antichi prescindendo dalla forma e imparerai a trovare gli stessi valori nei quadri moderni che all’apparenza non hanno un rapporto naturalistico».
Queste parole pronunciate da Afro (1912-1976) di fronte alla Pala di Brera, il capolavoro di Piero della Francesca, testimoniano una relazione profonda con “el monarcha de la pittura”, come l’aveva definito il matematico Luca Pacioli: un maestro riscoperto dal Novecento grazie alla rilettura di Roberto Longhi che lo ha reso un punto di riferimento imprescindibile rispetto al nuovo corso della pittura italiana che rintracciava nel Primitivismo la propria origine. Carrà, De Chirico, Casorati, Campigli sono solo alcuni degli artisti che hanno rivolto il loro sguardo verso Piero. Nel caso di Afro la situazione è differente e nemmeno negli anni giovanili si riscontra un omaggio diretto al maestro rinascimentale. La sua tuttavia è una relazione intellettuale profonda che va oltre il citazionismo. Fondamentalmente, Afro sa cogliere nell’opera di Piero l’assoluto equilibrio formale che sconfina nell’astrazione, «individuando», come scrive Marco Pierini, «nelle pause e nei silenzi il contrappeso necessario per le figure». Proprio il direttore della Galleria nazionale dell’Umbria ha curato, con il coordinamento scientifico di Alessandro Sarteanesi, Afro. Dalla meditazione su Piero della Francesca all’Informale, la mostra (dedicata allo storico dell’arte Marco Vallora recentemente scomparso) organizzata dalla Fondazione Guido d’Arezzo in collaborazione con l’Archivio Afro e Magonza, proposta sino al 22 ottobre alla Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea di Arezzo adiacente alla Chiesa di San Francesco che di Piero conserva il celebre ciclo delle Storie della vera croce. Si tratta di un progetto con oltre quaranta opere che ha il merito di fare luce, attraverso una serie di testimonianze inedite, sulla ricerca compiuta dall’artista friulano negli anni ’30 e ’40, meno conosciuta rispetto alla svolta degli anni ’50 che lo consacrò tra i protagonisti internazionali dell’astrattismo. Tuttavia, come emerge dalla rassegna, non ci sono due Afro. Il filo rosso unificante è la pittura di luce, come scrive Cesare Brandi: «Il periodo figurativo ha formato quell’humus, come si dice di un bosco, da cui ha potuto venire la sicurezza straordinaria del periodo astratto, gli ha potuto dare questa certezza assoluta, questo impasse di colori, queste toppe che non sono toppe ma sono trasmissioni cromatiche attraverso il filtraggio della luce, che è stata la sua grande trovata figurativa».
I maestri classici sono fondamentali nella formazione del giovane Afro che rielabora il tonalismo veneto, in particolare la luminosità e la trasparenza di Giambattista Tiepolo. Ma nel 1930 quando vince la borsa di studio della Fondazione artistica Marangoni a Udine, si cimenta con un’opera di particolare complessità come il Cristo morto di Mantegna, dimostrando un’attenzione al recupero della tradizione figurativa quattro-centesca che proprio allora animava il dibattito nazionale. Non manca poi un interesse per gli artisti spagnoli tra cui El Greco e Velázquez che si svilupperà verso la fine degli anni ’30. La pittura figurativa di Afro poi ha il merito di tenersi debitamente lontana dalla retorica fascista o dalla celebrazione dell’antica Roma. Preferisce muoversi intorno a temi di fan- tasia che esaltano la decorazione, come avviene a Rodi dov’era stato chiamato da Brandi a realizzare una serie di opere per l’Albergo delle Rose e Villa dei Profeti. Tra questi spiccano le Stagioni, quattro raffigurazioni allegoriche che per la prima volta sono esposte in una mostra pubblica. È il racconto di un tempo mitico dove le fughe coloristiche di Afro anticipano la sua fase successiva in un perma- nente dialogo con la storia dell’arte.
La pittura murale di Afro si sviluppa lungo oltre due decenni durante i quali emerge la personalità di un artista in grado di sviluppare la propria indagine sul piano ambientale. La mostra si concentra su una vicenda travagliata che ha coinvolto il complesso urbanistico dell’EUR dove nel 1942 avrebbe dovuto svolgersi l’Esposizione Universale di Roma (E42) sospesa a causa della guerra. Afro aveva il compito iniziale di realizzare un affresco sulle Attività umane e sociali trasformato poi in un grande mosaico di ben 73 metri. Di quell’esperienza rimane un grande bozzetto lungo oltre tre metri proposto in mostra che si caratterizza per un’adesione al linguaggio sei-settecentesco senza alcun intento celebrativo. Successivamente Afro ha realizzato grandi cartoni allegorici alti sei metri che sono stati restaurati per l’occasione con il contributo di Magonza e Galleria dello Scudo dove compaiono le allegorie dell’Arte al centro e della Fisica e della Chimica ai due lati. Anche in questo caso Afro resiste alle pressioni del regime e si concentra su forme semplificate, persino androgine risolte con una monocromia minimale. Sedici anni dopo, in un clima culturale completamente diverso, con Afro all’apice del successo (nel 1956 aveva vinto il Premio alla Biennale di Venezia come miglior pittore italiano) giunge l’ultima committenza per un’opera murale. A commissionargliela è l’Unesco di Parigi che aveva l’obiettivo di dare vita a un centro mondiale delle arti in grado di esprimere lo spirito del tempo. Insieme a Calder, Picasso, Miró, Moore, Matta e Appel, nel 1958 Afro decide di realizzare Il giardino della speranza (in mostra vengono proposti alcuni bozzetti), un’opera che esalta la forza emotiva del colore in un’intensa costruzione lirica e astratta, dove continuano a risuonare gli echi della grande pittura storica.
Scopri di più su chi era Afro Basaldella, la sua vita e le sue opere più famose.