Anish Kapoor a Firenze
La mostra Palazzo Strozzi
Negli spazi rinascimentali di Palazzo Strozzi, lo scultore anglo-indiano penetra nel mistero della natura umana con “buchi neri”, quadri specchianti e forme primordiali.
L’arte del dubbio s’insinua a Palazzo Strozzi a turbare l’equilibrio dell’edificio-simbolo della cultura rinascimentale. Lo scultore angloindiano Anish Kapoor (Mumbai, 1954, vive a Londra e a Venezia) ha infatti confezionato su misura per il palazzo fiorentino una mostra filosofica, un percorso iniziatico dove i confini tra realtà e finzione sono sempre più labili. Un percorso nel quale il visitatore è invitato a mettere continuamente in discussione le informazioni fornite dai propri sensi e che lo conduce a esplorare i territori dell’inverosimile e dell’irreale – Untrue unreal è infatti il titolo della mostra. E a mo’ di introduzione, Kapoor cita Paul Valéry, «secondo il quale una cattiva poesia è quella che svanisce nel significato. Molti, forse troppi miei colleghi oggi sono impegnati a “produrre significati”. Io sono interessato solo parzialmente al significato. Preferisco rifarmi alla poetica dell’oggetto, alla poetica dell’essere. Questo è il nostro compito», dichiara.
«Uno dei temi principali di questa mostra è l’oggetto vuoto, che per me non è affatto vuoto, ma pieno di oscurità, di dubbi, di riflessi. Sono un uomo dalle molte contraddizioni»,
dice Kapoor. Lo vediamo fin dal cortile di Palazzo Strozzi che accoglie l’installazione immersiva site specific Void pavilion VII (2023), un grande cubo bianco all’interno del quale scopriamo tre rettangoli neri (citazione del Quadrato nero di Kazimir Malevicˇ, 1915), tre “finestre” che affacciano su un’altra dimensione, come altrettanti “buchi neri” che ci risucchiano verso l’abisso, il mistero dell’essere, l’imperscrutabilità del grembo materno (il passato) o della tomba (il futuro). Spiega Arturo Galansino, direttore generale di Palazzo Strozzi nonché curatore della mostra: «I visitatori, “sprofondando” nei vuoti delle pareti, possono vivere un momento meditativo sull’idea di spazio, prospettiva e tempo. Un’esperienza fisica e mentale, impossibile da penetrare con la vista e che pare accogliere, in un mondo di ombre, l’inconscio». Così, in quel tempio dell’armonia architettonica, del rigore geometrico e della simmetria che è Palazzo Strozzi, l’artista introduce l’insondabile, l’indeterminato, l’infinito, lo stesso infinito cui allude, nel piano nobile del palazzo, la poderosa Endless column (1992). Ispirata a La colonne sans fin (1938) di Constantin Brancusi, è rivestita di color cremisi e se da un lato rimanda alle colonne in pietra del portico del palazzo, dall’altro si ha l’impressione che la sua funzione non sia quella di sorreggere, quanto di sfondare soffitto e pavimento:
«Quando si riveste un oggetto di pigmento, quest’ultimo si deposita a terra creando un alone attorno all’oggetto stesso. Questa esperienza mi ha suggerito il paragone con un iceberg, dove la parte maggiore dell’oggetto rimane nascosta, invisibile. Così mi sono interessato sempre più all’oggetto invisibile: una parte di esso sporge nel mondo reale, ma è il resto a essere veramente interessante»,
dice l’artista.
A dialogare con Endless column è un’installazione altrettanto spettacolare, una versione della quale era stata presentata nel 2009 nella grande mostra di Kapoor alla Royal Academy di Londra: Svayambhu (2007) consiste di un gigantesco blocco di cera rossa che, scorrendo su un binario lungo una ventina di metri, grazie a un motore nascosto si muove lentamente avanti e indietro attraverso un portale in pietra tra due sale del palazzo, depositando al suo passaggio una scia di materia morbida, color sangue. Un’opera che suggerisce una moltitudine di associazioni: l’oscillare lento e inesorabile di un pendolo gigantesco, metafora dello scorrere del tempo; il faticoso avanzare di un vagone ferroviario, a simboleggiare uno “scambio” tra culture diverse (l’Oriente e l’Occidente hanno entrambi avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’artista) o tra poli opposti come ordine-caos, interno-esterno, naturale-artificiale, vuoto-materia, che costituiscono la cifra stilistica dell’arte di Kapoor. Il titolo, Svayambhu, è un termine sanscrito che significa “sorto da se stesso” e nell’induismo e nel buddismo è un attributo della divinità: simbolo di nascita e di violenza, allusione alla massa primordiale da cui ha avuto origine l’Universo. Dice Galansino, «Svayambhu è il corrispettivo delle immagini acheropite cristiane, create senza l’intervento di una mano umana, ma impresse miracolosamente su un supporto».
Nelle sale successive prosegue il dialogo serrato tra Kapoor e il Rinascimento: «In particolare, mi sono confrontato con le due grandi innovazioni: la prospettiva e il drappeggio del tessuto». Sono infatti esposti alcuni lavori di forma circolare e di colore nero (Non-object black, 2015, Untit- led, 2023, Dark brutal, 2023) che presentano protrusioni, fori o cavità: al nostro passaggio, le forme degli oggetti mutano, si dissolvono, la terza dimensione svanisce come per magia.
Spiega l’artista:
«Nella pittura rinascimentale le pieghe dei tessuti rappresentavano l’essenza dell’essere umano. Da otto anni utilizzo il Vantablack, un materiale ottenuto grazie alle nanotecnologie del carbonio, talmente profondo da assorbire oltre il 99,9 per cento delle radiazioni luminose. Se applicato su una piega, questa scompare. La domanda dunque è la seguente: questo oggetto è reale o è una finzione? Il nero mi offre la possibilità di portare l’oggetto oltre l’essere».
Dice Galansino: «Utilizzando il rivoluzionario materiale, Kapoor ha proseguito la sua ricerca di lunga data dedicata al “non-oggetto”, che annulla ogni confine tra pittura e scultura». La mostra continua con una serie di lavori che appaiono, a prima vista, quanto di più lontano si possa immaginare rispetto alle opere “minimal” realizzate con il Vantablack e all’oggetto “immateriale”, ma che pure ritornano sul tema del rapporto tra pittura e scultura. Al centro della sala la scultura A blackish fluid excavation (2018), enorme “ferita” realizzata in acciaio e resina, è circondata da drammatiche forme organiche in silicone e vernice rosso sangue dai titoli evocativi (First milk, 2015, Tongue memory, 2016, Today you will be in paradise, 2016), masse viscerali dilaniate, che sembrano contorcersi e pulsare e che ricordano i quarti di manzo dipinti da Chaïm Soutine negli anni Venti.
Infine, una suggestiva “galleria degli specchi”, di cui l’incantatore Kapoor è grande maestro, offrono ulteriori esempi di quella smaterializzazione dell’oggetto cui tende la sua ricerca. Affacciandoci in opere in acciaio inossidabile di estrema perfezione formale come Vertigo, 2006, Mirror, 2018, e Newborn, 2019 (quest’ultimo un omaggio al capolavoro omonimo di Brancusi del 1915), i nostri riflessi appaiono capovolti, si contorcono, si dilatano, si sciolgono proprio come la cera di Svayambhu. E torna anche il gioco tra gli opposti: concavo-convesso, interno-esterno, caos-armonia. Nell’ultima sala, ecco Angel, un’installazione del 1990 che fa della contraddizione e della dialettica tra fisicità e trascendenza il suo punto di forza: pesanti lastre in ardesia, ricoperte con strati di intenso pigmento blu oltremare, evocano un’idea di leggerezza, quasi fossero i frammenti delle ali di un angelo. Proprio ciò che è irreale e illusorio, ci suggerisce Kapoor, fa parte della natura dell’uomo: «Untrue unreal, l’inverosimile e l’irreale sono l’essenza della condizione umana e del suo mistero».
Questo approfondimento è tratto dal n. 603 di Arte. La rivista di arte, cultura e informazione è acquistabile in edicola o sul sito di Cairo Editore.