Berna 1969: la mostra che creò l'Arte Contemporanea
"When attitude becomes form" alla Kunsthalle di Berna
La mostra “Live in Your Head: When Attitudes Become Form. Works - Concepts - Processes - Situation - Information”, curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna, tra la fine di marzo e l’aprile 1969, è considerata una delle più emblematiche e rappresentative dell’arte contemporanea dal dopoguerra a oggi. L’esposizione, a cinquant’anni dalla sua apertura al pubblico, è universalmente ritenuta una pietra miliare delle pratiche artistiche tra fine anni Sessanta e inizio Settanta e che ancora oggi viene utilizzata come prototipo ideale per la realizzazione di una mostra al di fuori dei canoni “classici”.
Come nacque la mostra?
Harald Szeemann dirigeva la Kunsthalle di Berna da sette anni ed era conosciuto per le sue mostre tematiche radicalmente innovative, sostenute da audaci posizioni artistiche, quando nel luglio del 1968 gli fu proposto di organizzare un’esposizione che raccogliesse e presentasse le novità in campo artistico alla Kunsthalle. Szeemann rispose con entusiasmo, sebbene non avesse ancora bene chiaro in mente un progetto espositivo definito. Dopo neanche una settimana da quell’incontro, era già in viaggio per l'Olanda alla ricerca dei nuovi protagonisti delle sperimentazioni artistiche.
Incontrò per primo Jan Dibbets. Nel suo studio alcuni lavori colpirono il direttore della Kunsthalle: in particolare due tavoli, uno con un neon installato sopra, l’altro con una superficie d’erba che fuoriusciva dal ripiano. Convinto che questo approccio, nella sua semplicità e intensità, fosse il più rappresentativo della nuova generazione artistica, iniziò a informarsi proprio presso di lui su chi lavorasse ad opere con metodi simili. Dibbets gli indicò Ger van Elk, Marinus Boezem, Richard Long e Piero Gilardi, artisti che utilizzavano materiali nuovi, come la plastica gommata e la fibra di vetro, e che dichiaravano di considerare “arte” alcuni loro semplici gesti, come una passeggiata in campagna o l’osservazione dei cambiamenti climatici quotidiani. Dopo mesi di ricerche e visite di studi, Szeemann riunì un numero piuttosto elevato di artisti europei e americani, in totale ne scelse sessantanove.
I partecipanti
La selezione, rivista oggi, risulta essere davvero sbalorditiva per la capacità e la sensibilità che guidarono il curatore nella scelta di tutti i più importanti protagonisti di quella generazione, ora presenti nella maggior parte dei musei internazionali, tra cui possiamo ricordare, solo per citarne alcuni: Carl Andre, Giovanni Anselmo, Joseph Beuys, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Paul Cotton, Jan Dibbets, Ger van Elk, Piero Gilardi, Michael Heizer, Eva Hesse, Douglas Huebler, Paolo Icaro, Mr. & Mrs. Edward Kienholz, Rotraut Klein, Joseph Kosuth, Jannis Kounellis, Sol LeWitt, Richard Long, Walter de Maria, Mario Merz, Robert Morris, Bruce Nauman, Claes Oldenburg, Dennis Oppenheim, Emilio Prini, Richard Serra, Seth Siegelaub, Robert Smithson, William G. Wegman, Lawrence Weiner, David Whitney, William T. Wiley, Gilberto Zorio.
Il confronto con questa nuova generazione incentivò la creatività di Szeemann: il suo approccio alla conoscenza dell’arte, attento soprattutto all’atto e all’esperienza creativa dell’artista, lo condusse al concetto fondante e quindi al titolo dell’esposizione “When Attitudes Become Form” spiegato così da lui stesso:
«Opere, concetti, processi, situazioni, informazioni sono le “forme” mediante le quali vengono espresse queste posizioni artistiche. Sono “forme” derivanti non tanto da opinioni pittoriche predeterminate, ma dall’esperienza del processo artistico stesso. Ciò determina sia la scelta del materiale che la forma dell’opera intesa come estensione del gesto. Un gesto che può essere personale e interiore, oppure pubblico ed estroverso. Ma il processo in quanto tale rimane sempre fondamentale, è al contempo “calligrafia e stile”. Pertanto il significato di quest’arte risiede nel fatto che un’intera generazione di artisti si è impegnata a dare “forma” alla “natura dell’arte e dell’artista” nei termini di un processo naturale».
Szeemann aveva compreso la centralità del gesto nella creazione artistica, e ne aveva l’esatta percezione, ma il suo intuito gli aveva fatto cogliere anche il valore della spettacolarità dell’oggetto in quanto veicolo del significato. Scelse e presentò per la mostra le opere più compiute, rappresentative e radicali, con un’acuta sensibilità per la drammatizzazione e la spettacolarità, e fu particolarmente abile nel selezionarle in modo tale da ottenere il massimo dell’effetto.
Le ricerche artistiche presentate a Berna, che successivamente presero il nome (o furono appena battezzate) di Land Art, Process Art, Arte Povera, Conceptual Art, segnarono un cambio di segno nei confronti delle tecniche e dei materiali, che avevano come scopo quello di esaltare una concezione della fruizione poetica rispetto a una contemplativa, grazie alla quale l’essere umano è spinto a immergersi andando oltre il semplice sguardo.
Questi artisti, con il loro interesse per il valore insignificante e concreto delle cose e degli oggetti, celebrarono con le loro opere il carattere fortuito e caotico dell’arte, la sua permeabilità a tutti i possibili linguaggi e a tutti i possibili elementi, dal piombo all’acqua, dal fuoco alla cera, dalla margarina al tubo fluorescente, dal cuoio al feltro, dai vetri rotti al ghiaccio, dalla cenere al cotone, così come a tutti gli strumenti, le azioni quotidiane e gli utensili non ordinari, dalla pala al caterpillar, dal giornale al cartellone, dalla lettura al camminare.
Durante i giorni della mostra venne “profanata” una cultura visiva che si era identificata solo con il dipingere e lo scolpire. Il terreno su cui muoveva questo gruppo internazionale ed eterogeneo di artisti fu percepito fin da subito: emergeva comunanza in un mondo dell’arte percepito come ancora profondamente diviso in movimenti nazionali e fermamente convinto della diversità continentale tra Europa e Nord America.
Come afferma Richard Serra: «Nelle mostre del 1969, la maggior parte degli artisti era in un certo senso implicata – non lo sto dicendo in senso politico – nelle potenzialità di un nuovo modo di concepire ciò che l’arte poteva essere».
Lo stesso Tommaso Trini nel catalogo dell'esposizione tratteggia le principali caratteristiche di questo spirito affine: «Da Torino a New York, da Roma a San Francisco, gli artisti europei e americani hanno via via scoperto notevoli corrispondenze. Questa insospettata compresenza di esperienze estetiche fondamentalmente simili fa pensare a una particolare condizione estetica in espansione. [...] Non è un’arte sulla vita, né un’arte sull’arte, ma certo riguarda la condizione umana. Quando Zorio e Nauman, Prini e Serra scoprono una sostanziale affinità nei loro lavori riprodotti sulle riviste, pur senza reciproca influenza e con opere I’una diversa dall’altra, si riconoscono necessariamente coinvolti nei medesimi condizionamenti che Ii hanno portati alle medesime opzioni. In genere, questi artisti hanno acutamente valutato Ie forze prevaricatrici che distruggono e discreditano Ie nuove idee artistiche, sono consapevoli dei cieli di obsolescenza e delle illusioni sociali, sanno ciò che il pubblico e gli specialisti si attendono da loro. La loro arte vuole essere una risposta a tale situazione, una risposta positiva, ma senza adattarsi: non si limitano più a sopravvivere, ma oppongono una controstrategia. I loro lavori hanno abbandonato I’usuale terreno d’indagine tra arte e vita, adesso materializzano una ricerca di vita, e di vita liberata».
Seppure le ricerche sviluppatesi dal 1945 al 1964, dall’Espressionismo astratto alla Pop Art, avessero tentato di prendere in considerazione la dimensione solitaria e disperata dell’artista, la sua angoscia esistenziale e l’esperienza drammatica del vivere dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, segnati dal dissolvimento del valore morale e rappresentativo dell’arte, ormai scalzata e fagocitata dall’immaginario mediatico, dalla pubblicità ai cartoons, non erano, tuttavia, riusciti a evitare di produrre qualcosa che non avesse in sé il valore decorativo dell’artefatto. Si ponevano come duplicati di un immaginario individuale e industriale, senza indebolire e screditare minimamente la pratica del fare, del mostrare, del comunicare e del consumare l’arte.
Le “attitudini” prodotte a Berna sottintendevano una scena espositiva che, occupando non solo i musei, ma le strade e gli spazi pubblici, riflettesse un’azione politica in cui tutti, artisti e spettatori, fossero coinvolti e di cui tutti dovevano prendere consapevolezza. I contributi artistici in “When Attitudes Become Form” non consistevano propriamente nella produzione di oggetti, anche nel caso di opere site-specific, ma nella creazione di nuovi contesti. Ovvero, gli artisti coinvolti rendevano percepibile un elemento non visibile dell’opera: l’aura ossia l’oggetto, la “cosa” che in sé conteneva anche l’“attitudine” della creazione.
È così che “When Attitudes Become Forms” è diventata l’impresa curatoriale d’avanguardia per eccellenza. Sembrava anticipare gli sviluppi più significativi che l’avrebbero seguita, pur essendo assolutamente radicata nel suo tempo. Era speculativa, ma assumeva una posizione netta, proclamando una nuova arte del futuro e una scoperta nel presente.
«Nella prospettiva odierna, il cambiamento più profondo che le pratiche artistiche degli anni Sessanta e Settanta hanno portato con sé è questo: dopo aver conosciuto tali pratiche, non si riesce più a considerare l’arte come una semplice produzione di singole cose, fossero anche i ready-made. Questo non significa che, a partire dagli anni Sessanta, l’arte sia diventata in qualche modo “immateriale”, ma è diventata concettuale nel senso più lato del termine. L’attenzione degli artisti si è spostata dai singoli oggetti per andare a considerare i rapporti nello spazio e nel tempo, che potrebbero essere di ordine puramente spaziale, ma anche logico e politico. Mostrare i rapporti tra le cose, i testi e gli eventi significa esporli».
Le parole di Boris Groys sanciscono in maniera inequivocabile il cambiamento avvenuto in quel periodo storico-artistico, mostrato per la prima volta in maniera organica e strutturata in “When Attitudes Become Form”.
Lasciando agli artisti la libertà di concepire qualcosa che andasse al di là della relazione tra oggetto e forma, forma e immagine, immagine e spazio, fu possibile oltrepassare quelli che prima erano i limiti ideali di un’opera d’arte. Questa libertà espressiva fu concepibile in un momento storico durante il quale la ricerca artistica era accompagnata da una frenetica battaglia per indirizzare tutta la società, e il mondo con essa, verso un’altra direzione, più utopica e più egualitaria. Questo spirito del tempo permeò l’attività letteraria, politica, sociale e artistica esprimendo ciò che sentiva, quello che intravedeva e quello che avrebbe voluto che fosse, in tutte le sue contraddizioni.