Giulia Cenci: tra natura e artificio
L'intervista alla vincitrice del 21° Premio Cairo
Il 2022 è stato un anno davvero d’oro per Giulia Cenci: con Dead Dance ha partecipato alla mostra principale della 59a Biennale di Venezia, una sterminata installazione di circa 150 metri; ha appena inaugurato la personale Hija del aire al Museo Juan Manuel Blanes di Montevideo; con Untitled si è aggiudicata il 21° Premio Cairo.
La Cenci, come gli altri diciannove artisti selezionati dalla redazione di Arte, avrebbe dovuto essere in mostra nel Palazzo Reale di Milano a ottobre 2020, senonché l’infuriare della pandemia ha fatto slittare al 2022 la presentazione delle opere in concorso, e nella fattispecie quella che a prima vista è apparsa urticante – il calco della tassidermia di un lupo immerso in una “scheletrita”vasca idromassaggio − con cui la giovane artista, nata a Cortona 34 anni fa, si è imposta “per aver saputo rappresentare con potenza formale l’incontro tra esseri viventi e mutazioni tecnologiche, tra naturale e artificiale, tra identità e alterità”.
Un’opera che − stando alla motivazione della giuria che l’ha premiata all’unanimità − si fa interprete inquieta dei nostri tempi, forte però di un’eredità artistica e di un’ancora più solida tensione etica peculiari della disciplina artistica di Giulia Cenci.
«Ho sempre voluto essere un’artista. Fin da subito mi è stato abbastanza chiaro che questo fosse il mestiere più emozionante e libero. Ho iniziato iscrivendomi a un istituto d’arte di Perugia: dovevo per forza andarmene da Cortona. Ho proseguito a Bologna, all’accademia. Ho studiato pittura, anche se non ho mai percepito la differenza tra le varie pratiche d’arte. Il mio approccio alle due dimensioni è durato davvero poco».
«Vivere in quella città è stato piuttosto incredibile, tra l’altro non c’è nemmeno un quadro di Bosch, ma in verità non conta molto. Forse il carnevale è il momento più vicino a quell’autore. Non avevo mai capito quella festa finché non ho vissuto lì, e non si tratta tanto delle maschere o della sua estetica, quanto dello scuotimento che vivono le persone in quei giorni di totale anarchia. Il carnevale al sud dell’Olanda dura venti giorni ed è molto sentito, ovviamente solo nelle zone di stampo cattolico. La gente si trasforma e non c’è più regola o morale che tenga».
«Dal dentista. Mi sono trovata con due persone che si affacciavano sulla mia bocca: il mio corpo immobile e tutti quegli strumenti, quei cavi, quei trapani che passavano tra loro e me. Mi sono vista da fuori inerme, interessata molto a quella sorta di violenza immobile cui mi stavo sottoponendo senza poter parlare, e così ho pensato di farne un lavoro».
«La grande eredità artistica che abbiamo e qualunque cosa è a mia disposizione. Tutto e niente, senza esclusioni e gerarchie. Credo che sia necessario non escludere scelte o gesti che sento necessari per il mio lavoro. Uso il ready-made e la scultura, l’installazione, in alcuni casi la pittura. Ho capito che ognuno di questi linguaggi è egualmente necessario e capace di coesistere senza problemi nella formazione di una nuova opera».
«La scultura porta dentro di sé tutto questo. È il suo stesso fare a “includere ed escludere rispetto a un limite”. Se per un attimo pensiamo alla scultura in senso materico, sappiamo che quel “resto” giace da qualche parte, non è inesistente: semplicemente è altrove. Già da studente, affiancando la teoria al fare, ho capito che non potevo escludere quasi niente di ciò che approcciavo, e che il “resto” diventava sempre più un elemento imprescindibile del lavoro: oggetto e soggetto di riflessione. Inoltre è più divertente, e più necessario, cercare di trasformare il marginale in un’opera: ce lo insegnano tutti i grandi maestri».
«Per me non esiste un elemento più “elevato” di un altro, non c’è distinzione tra un brandello di plastica, un rottame o un pugno d’argilla, così come tra un blocco di marmo o un pezzo di ferro. Non separo nemmeno ciò che può essere definito “ready-made” − qualcosa che preesiste all’uso che ne facciamo dopo − da ciò che è invece individuato come materia prima, pura. Nel tempo in cui viviamo è diventato difficile trovare un angolo di Terra dove l’impatto umano non abbia alterato funzioni ed equilibri, motivo per cui mi risulta molto difficile riconoscere la materia pura da quella alterata e formata dall’uomo. Con un tale approccio antigerarchico ho iniziato a escludere ogni tipo di classificazione degli elementi. Ogni tipo di elemento fa parte di un grande humus per generare un nuovo lavoro».
«Sì, è vero, anche questo ha a che fare con quell’idea di “resto” di cui si parlava prima. Si tratta di intendere tutto quanto ci circonda come un intero corpo di lavoro: uno spazio indefinito all’interno del quale le cose e la materia coesistono in una coreografia dinamica, in cui anche il corpo dello spettatore diventa parte frammentata. Non m’interessa dare una collocazione centrale a nessuno degli elementi che utilizzo, ma piuttosto una sorta di interdipendenza tra di loro, quasi una necessità di appartenenza condivisa ed orizzontale. È un po’ quello che succede in natura, anche se nelle mie opere non sembra esserci un sistema centrale, un personaggio o un elemento più fortunato di altri».
«Parlare di morte di un linguaggio espressivo è sempre un controsenso. I linguaggi sono fatti per reinventarsi, e non sappiamo mai cosa aspettarci dalla ricerca che si perpetua e dilaga tra le mani e le teste degli artisti. Si tratta di processi che per natura non possono avere una conclusione. Potevamo immaginarci che la pittura sarebbe riuscita a superare la grande crisi dovuta alla nascita della fotografia? L’ha fatto e in modo sublime, dando il meglio di sé. Potevamo aspettarci artisti figurativi dopo le avanguardie e i minimalismi? Abbiamo avuto maestri “necessari” come Francis Bacon o Lucian Freud: non sarebbe immaginabile una storia dell’arte senza di loro. Potevamo immaginare la scultura dopo il ready-made di Duchamp e la produzione industriale? Certamente: è successo quando tutto è stato incluso nei processi creativi. Penso che la nostra epoca sia fortunatissima. Diffido di chi crede che stiamo vivendo il momento peggiore del nostro tempo. Gli artisti possono solo dare il meglio di sé, specialmente in mezzo al peggio. È sempre stato così».
«Pensare a una sola mi è difficile: sono una divoratrice di opere. Avrei voluto fare “cicli” di opere: se penso a Bacon diventa arduo scegliere. Guernica è fondamentale; Louise Bourgeois è un’altra mia grandissima maestra. E poi Medardo Rosso, la Battaglia di Eraclio e Cosroè nelle Storie della Vera Croce di Piero della Francesca...».
Questo approfondimento è tratto dal n. 592 di Arte. La rivista di arte, cultura e informazione è acquistabile in edicola o sul sito di Cairo Editore.